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Dialogo con Rodrigo Nunes1

Abbiamo letto il tuo libro sul bolsonarismo, che abbiamo trovato interessante da più punti di vista. In particolare, ci ha colpito l’immagine di una temporalità sospesa che proponi, in cui c’è una diffusa consapevolezza del fatto che non si può andare avanti così (che il capitalismo ha esaurito le sue promesse per il futuro) e contemporaneamente non sembra esserci alcuna alternativa. Sono forse queste le coordinate temporali in cui avanza un “nuovo fascismo”, non solo in Brasile. Pensiamo a Trump, naturalmente... Ora, indipendentemente dall’utilità della categoria di fascismo (o post-fascismo, o tardo fascismo), è evidente che siamo di fronte a una destra di tipo nuovo, che mette tendenzialmente in discussione ogni possibilità di mediazione. Questo pone evidentemente una serie di problemi per la teoria e la pratica dell’organizzazione. Insomma, come ci si organizza di fronte a “Trump”?

Indipendentemente dal nome che vogliamo usare, ci confrontiamo oggi con una destra estrema molto aggressiva e in qualche modo anche nuova. Io mi tengo lontano dalla discussione sull’uso della parola “fascismo” perché mi sembra che si aspetti dalla decisione sul nome della cosa una forza e chiarezza politica che non può avere. Cosa cambia veramente se decidiamo che di fascismo si tratta? È un dibattito in cui ci sono due vicoli ciechi. Il primo è l’approccio analogico, in cui si stila un elenco che di solito è tratto dalle esperienze storiche di Italia e Germania negli anni Trenta e si raffronta l’oggi a quelle due esperienze. È un approccio molto limitato dal punto di vista storico e teorico. Il secondo è un concetto iper-filosofico di fascismo, che è qualcosa che si può trovare in Deleuze e Guattari, in Paul Virilio, in Esposito in Italia. Qui il concetto di fascismo è interamente tratto dall’esperienza nazista e dalla sua caduta, e si presume che questo sia necessariamente il punto irrisolto, il buco nero verso cui si tende oggi. L’approccio più promettente che ho letto di recente è quello di Alberto Toscano3, che sostiene che il fascismo è qualcosa come l’herpes, emergerà, divamperà nel capitalismo ogni volta che le condizioni che lo frenano diventano troppo deboli, è un potenziale intrinseco del capitalismo che è sempre presente. Ma questo vuol dire giustamente che, per orientarci politicamente e cognitivamente davanti a fenomeni come il bolsonarismo, è più importante, invece di concordare su un nome, metterci di accordo sull’oggetto e su quali siano le sue caratteristiche più salienti.

Ora, per quanto riguarda il modo in cui ci si organizza in questo contesto, iniziamo a stabilire alcuni dei limiti o dei vincoli in cui ci troviamo. Prima di tutto, la destra sembra aver occupato molto più efficacemente il terreno della tecno-politica, mentre verso la fine degli anni Novanta e ancora all’inizio dell’ultimo decennio si dava per scontato che questo fosse il terreno in cui prosperava la sinistra. Ciò è in gran parte conseguenza di una convergenza tra le loro tattiche e l’architettura stessa dei social media, ad esempio il fatto che gli algoritmi favoriscono i contenuti che fanno leva su emozioni forti e idee semplicistiche. Esistono già numerose prove dell’amplificazione algoritmica dei contenuti di destra, che probabilmente è sia un effetto non voluto sia il risultato di un’alleanza sempre più deliberata tra Silicon Valley ed estrema destra. L’interferenza capricciosa di Elon Musk su Twitter ha appena portato allo scoperto il tipo di manipolazione che gli algoritmi producono silenziosamente da molto tempo. I social media rimangono un territorio da contendere, però è necessario riconoscere non solo questo svantaggio, ma anche che quello che serve alla destra non sempre potrà servire a noi. La destra, ad esempio, a differenza della sinistra è molto soddisfatta di avere una base sociale che può “accendere e spegnere” con il potere di mobilitazione dei social media – mentre la sinistra ovviamente ritiene che la base sociale dovrebbe essere partecipante attivo e continuativo nella progettazione politica.

L’altra questione riguarda i limiti delle forme di azione emerse nell’ultimo decennio, delle proteste di massa in strada e nella capacità di fare pressione sul governo. Ciò di cui ci siamo resi conto dopo il riflusso del cosiddetto Movimento delle Piazze (2011-2013 in particolare) è che l’efficacia di questo approccio è molto limitata quando i governi si abituano ad operare con una legittimità molto bassa o basandosi principalmente sul debolissimo consenso passivo della maggioranza della popolazione – e questo è ancora più vero ora che abbiamo l’estrema destra al potere, che ovviamente sarà molto più impermeabile a qualsiasi pressione dal basso, e in una situazione in cui sembra sempre più che “le maschere siano abbassate” quando vediamo le élite globali e le grandi aziende tecnologiche che esercitano sfacciatamente il loro potere.

Tuttavia, penso sia possibile e necessario rilanciare nuove ecologie organizzative che perseguono obiettivi strategici concreti, che individuino punti su cui esercitare pressione per avere un impatto strutturale. Il suggerimento che faccio in Né verticale né orizzontale è che il punto di partenza possono essere i colli di bottiglia nella riproduzione sociale, punti in cui le persone sperimentano i costi e le difficoltà crescenti della riproduzione sociale in un modo molto tangibile. Quindi, ad esempio, la casa o il trasporto pubblico, che sono punti in cui puoi provare a costruire identità trasversali che possono collegare frazioni di classe e identità diverse. Bisogna attaccare quei punti con un’idea chiara di cosa si sta cercando di fare: qual è la strategia, dove sono i punti di pressione, di cosa si ha bisogno per colpire quei punti di pressione per produrre simultaneamente vittorie che rispondono a delle richieste collettive e impatti strutturali che aprono nuove possibilità di trasformazione. E con molta, molta flessibilità e diversità per quanto riguarda le forme di azione. Abbiamo davvero bisogno di riflettere su altre forme di azione che abbiano il potere di disturbare e bloccare i flussi che sostengono il capitale contemporaneo, i flussi di merci ma anche i flussi finanziari.

Ma alla fine, per quello hai bisogno di militanti, e penso che una delle cose che l’esplosione di mobilitazioni dell’inizio dell’ultimo decennio ci ha offerto sia stata una sorta di accumulazione primitiva di militanti che sono stati alla testa di parecchie iniziative politiche. E penso che questa accumulazione primitiva di militanti, vale a dire questi punti critici in cui si forma tutta una generazione di quadri politici di tutti i tipi, forse si ricondenserà in una opposizione di massa all’estrema destra o nell’azione di massa contro il cambiamento climatico. Quest’ultime non saranno forse le più strategiche ed organizzate, essendo piuttosto più reattive e senza una direzione molto chiara; ma penso che sia dove si potranno trovare i quadri militanti che andranno a prendere parte a progetti più strategici e diretti.

Nella nostra riflessione, gli anni 2020-2022 rappresentano uno spartiacque storico. Il combinato disposto tra pandemia globale da Covid-19, accelerazione mozzafiato delle tecnologie digitali, e la guerra in Ucraina che vede confrontarsi indirettamente potenze nucleari, sembra aver mutato radicalmente la fase storica. Tuttavia, permangono evidentemente anche alcune linee di continuità con gli anni precedenti. Dal tuo punto di vista, per una prospettiva di trasformazione sociale radicale, quali elementi permangono di attualità del ciclo di insurrezioni, rivolte, movimenti e lotte che ha caratterizzato il decennio 2010-2020, e cosa invece è diventato desueto? Hai già detto che il decennio delle proteste di massa ha mostrato molti limiti, e uno di questi è la difficoltà di organizzare o realizzare la possibilità di un progetto a lungo termine.

Ma vorremmo anche chiederti: nel tuo lavoro hai proposto di spezzare la dicotomia politica tra orizzontalismo e verticalismo, non opponendo tali direttrici geometriche quanto piuttosto ripensandole in modo duttile per una nuova sfida organizzativa. Questa dimensione di ricerca politica che proponi va intesa come una indicazione per le/i singole militanti (ossia: non pensare più il proprio agire nella forma della costruzione di organizzazione “verticali” o “orizzontali”) o è una proposta di sguardo politico sull’intera gamma di organizzazioni oggi esistenti, che dovrebbero essere guardate come complementari nel loro essere alcune verticali e altre orizzontali, e dunque esercitando funzioni differenti? Insomma, bisogna andare al di là dell’idea di organizzazione orizzontale/verticale, o bisogna pensare di integrare tali forme? Inoltre, questa intuizione va intesa come una sorta di suggerimento per le militanze politiche per provare a immaginare una nuova forma di organizzazione, o è uno spunto rivolto a tutte le persone già coinvolte in organizzazioni nell’adottare una visione ecologica dell’ecosistema di organizzazioni esistenti?

Forse entrambe le cose e qualcosa in più. Da un lato, ci sono persone più predisposte a un approccio più orizzontale e altre ad uno più verticale, e con orientamenti strategici diversi; ma se pensiamo che siamo tutti parte dello stesso ecosistema, e che abbiamo più da guadagnare dalla cooperazione che dalla competizione tra noi, possiamo lavorare meglio insieme. Cioè, se pensiamo le cose non dal punto di vista delle singole organizzazioni ma piuttosto da quello dell’ecosistema dove operano quelle organizzazioni, si tratta di riconoscere che agiamo già tutti insieme in un certo modo e di chiederci: e se cominciassimo ad agire insieme in modo più deliberato, mirato e strategico, senza pretendere di ridurre le nostre differenze ma piuttosto cercando di sfruttarle al massimo in termini di complementarietà?

Sostengo, inoltre, che in realtà tutte le organizzazioni siano già così, né orizzontali né verticali. L’immagine che la gente si fa di essere all’altezza del proprio ideale astratto, di come dovrebbe essere l’organizzazione “corretta”, può essere sostenuta solo a costo di chiudere gli occhi sulla propria pratica e di non riconoscere tutti i modi in cui spesso non solo non corrisponde a quell’ideale, ma che anzi sono proprio i modi in cui “fallisce” a spiegare perché funziona. L’orizzontalità e la verticalità perfette, se esistessero, sarebbero un fallimento completo, assolutamente impraticabile. Ovviamente alcune organizzazioni tenderanno più verso una o l’altra estremità dello spettro e si muoveranno lungo quello spettro in momenti diversi. “Né orizzontale né verticale” non vuol dire «prendiamo ciò che c’è di buono da ciascuno lato», ma capire orizzontalità e verticalità non come modelli astratti da seguire o parti in una disputa in cui sarebbe necessario prendere una posizione dogmatica, ma come tendenze delle dinamiche organizzative che dobbiamo apprendere a utilizzare e gestire secondo le necessità dei processi politici stessi.

Questo pensiero dovrebbe funzionare contemporaneamente su tre livelli diversi. C’è quello etico, diciamo, una dimensione individuale, che dovrebbe permettere di pensare in termini più flessibili, di adottare un atteggiamento più collaborativo invece che competitivo, e di pensare di più al come integrare le cose che ci sono là fuori piuttosto che al come costruire la magia-macchina-organizzazione che fa tutto ciò che deve essere fatto. L’altro livello, quello delle organizzazioni prese individualmente, che vanno pensate in termini più flessibili, scegliendole non semplicemente perché corrispondono all’identità a cui si crede di dover corrispondere ma perché hanno senso nel contesto in cui stanno agendo. La terza dimensione è quella dell’ecologia nel suo insieme, che ci impone una logica della complementarità, della collaborazione piuttosto che competizione, della strategia aperta e non-dogmatica, della flessibilità tattica, della diversificazione funzionale, e anche una doppia fedeltà: ai nostri singoli progetti ed organizzazioni e, allo stesso tempo, all’insieme dell’ecologia.

Pensare e agire nei termini che ho appena descritto, ovviamente, significa anche progettare e gestire organizzazioni esistenti, o qualsiasi organizzazione tu possa creare, lungo queste linee. Ma ciò che mi sembra più importante è il terzo livello, che va oltre le singole organizzazioni e la questione della forma organizzativa di queste singole organizzazioni. Penso sia a questa altezza che dovrebbero porsi le riflessioni sulla strategia e la tattica, il pensiero e l’azione politica. Quindi, da un lato, si tratta di trasformare i modi in cui le persone potrebbero progettare o attuare forme organizzative o procedure all’interno delle loro organizzazioni. Ma si tratta anche, ed è proprio qui l’aspetto più importante, di pensare sempre a queste cose con due tempi alla volta, per così dire. Da un lato, stai pensando alla tua organizzazione o scommessa strategica individuale, ma allo stesso tempo, stai anche assumendo la prospettiva dell’ecologia e di ciò che funziona all’interno dell’ecologia – e quali sono le opportunità, le risorse e le possibilità disponibili, dove sono i punti di convergenza, dove sono i potenziali alleati o gli alleati di cui abbiamo bisogno, e così via.

Copertina del primo numero di Teiko

© Archivio UPO

Negli ultimi anni in Italia abbiamo discusso molto sulla possibilità di convergenza, che risuona con questa idea di pensare in termini di ecologia il movimento, l’organizzazione e così via. Ma c’è una questione che viene ancora fuori a un certo punto, quando queste cose si sperimentano nella pratica, ovvero come far funzionare effettivamente questa ecologia. Perché evidentemente non si crea in modo spontaneo, né con una decisione verticale, ma resta il fatto che “qualcuno” deve organizzare questa ecologia. Quindi come è possibile che questa ecologia funzioni senza un qualche soggetto che ne curi l’articolazione? In altre parole, se guardiamo al panorama di organizzazioni sociali, partiche, sindacali, mutualistiche, associative, di movimento, etc. cui tu fai riferimento nel tuo libro, quando ragioni di un “ecosistema” organizzativo sostieni che è proprio questa visione ecologica che va oggi adottata sul tema dell’organizzazione, valorizzando dunque la diversità e l’eterogeneità insite in quella costellazione organizzativa. Ci pare uno spunto decisivo, ma che lascia al contempo aperta una questione. Se, infatti, l’articolazione tra le differenti organizzazioni è un punto cruciale, come pensi che questa articolazione si possa produrre? In altre parole: chi articola l’articolazione? Si fa in modo “magico”/ spontaneo/ per logica insita nel processo organizzativo? O si produce esternamente, con l’intervento di una qualche “avanguardia” che si assume il compito di articolare le varie forme organizzative? O si definisce internamente, come atto di volontà politica da parte di qualche singola organizzazione? O ancora, e in altre parole, l’ecosistema organizzativo che immagini si compone spontaneamente o ha bisogno di una qualche forma di “regia” (e, se quest’ultima è l’idea, come la si potrebbe definire)?

La mia visione politica si è formata nel contesto del ciclo “no global”, e dall’eccitazione per l’idea della moltitudine quando Toni e Michael l’hanno proposta per la prima volta. Era una visione bella e potente, ma poi è arrivata la disillusione, perché non riuscivamo a capire come la moltitudine potesse decidere o, per dirla alla hegeliana, come potesse passare di essere “in sé” ad essere “per sé”. Il mio libro è in qualche modo un tentativo di rispondere a quella domanda, che è sempre sullo sfondo. E ciò che ho scoperto è che la risposta richiede, innanzitutto, di abbandonare la speranza che la moltitudine o un’ecologia alla fine diventi davvero “per sé”, come un soggetto pienamente consapevole. Ciò che accade è piuttosto che è sempre una parte dell’ecologia a decidere, non l’ecologia nel suo complesso, e possiamo misurare l’adeguatezza e la legittimità di una decisione, la sua capacità di identificare correttamente dei bisogni e necessità collettive, dal grado di adesione che essa raccoglie, dall’estensione in cui la gente si riconosce in essa e la sostiene. Ma questo comporta automaticamente che, in secondo luogo, dobbiamo rifiutare l’opposizione stessa che è implicita nella domanda tra un’organizzazione che apparirebbe magicamente “dall’interno” o una che sarebbe imposta “dall’esterno”. Perché se è sempre una parte dell’ecologia a decidere, la decisione non è né qualcosa che emerge “spontaneamente”, come per magia, né qualcosa che viene dall’esterno. Viene dall’interno, in quanto è una parte dell’ecologia che la avvia; ma non è una sorta di armonia che emerge naturalmente e tutta in una volta, è un cambiamento che inizia in un punto e poi si propaga man mano che le persone lo adottano, lo adattano, vi rispondono direttamente o rispondono a un ambiente che è stato trasformato da quella concatenazione di azioni e processi. Non esiste una scala o un criterio assoluto secondo cui analizzare la natura: ci sono solo sistemi all’interno di altri sistemi. Questo vuol dire che tutto ciò che appare da una scala come un sistema composto da tanti elementi può essere visto, da una scala più alta, come un singolo elemento; e due sistemi che appaiono come esterni l’uno all’altro possono essere visti come elementi di un terzo sistema da un altro punto di vista. E questo, a sua volta, implica che ciò che vediamo da una scala come l’auto-organizzazione di un sistema non è altro, quando passiamo alla scala dei suoi elementi, che il risultato emergente dell’azione di questi elementi l’uno sull’altro.

Questo fraintendimento sulla natura dell’auto-organizzazione produce un’idea di essa come qualcosa che può emergere solo “alle spalle delle persone”: “spontaneo” qui significa “senza alcuna intenzionalità, senza che nessuno ci provi”, e quindi, invece di essere pensata come il risultato emergente delle azioni di elementi, l’auto-organizzazione viene concepita come l’esatto contrario. Da qui il rifiuto istintivo da parte di molti di qualsiasi proposta di integrare o organizzare ulteriormente l’ecologia, o anche solo di farla convergere su una grande campagna, un’unica azione e così via. Viene immediatamente percepito come un tentativo malvagio di imporre qualcosa “dall’esterno”, che si considera l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere l’auto-organizzazione. Invece, se capiamo che chiunque stia cercando di organizzare l’ecologia è all’interno dell’ecologia, la questione non è più morale (è male provare ad organizzare le cose) ma pragmatica: è una buona idea? Risponde adeguatamente ai bisogni e desideri esistenti all’interno dell’ecologia? Indica una giusta direzione? È compatibile con ciò che altri stanno già cercando di fare? Fa un uso saggio delle risorse esistenti? Quali sono i suoi rischi per l’equilibrio di potere all’interno dell’ecologia? E il giudizio diviene così uno sforzo non più di sottrare ma di aggiungere realtà alla proposta, come direbbe Isabelle Stengers4 – cioè, di complessificarla, di renderla più ricca. Non c’è nessun male in sé nel cercare di organizzare un’ecologia. In realtà è ciò di cui abbiamo bisogno, ciò a cui tutti dovrebbero pensare. Piuttosto che evitare la domanda perché diamo per scontato che questo implicherebbe controllo, una regola dall’alto, etc., dobbiamo tutti pensarci più profondamente, sviluppare la nostra immaginazione e capacità collettiva di pensare la strategia in modo ecologico.

Vorrei, tuttavia, fare altre due osservazioni. Dire che l’auto-organizzazione è il risultato emergente di ciò che fanno gli elementi del sistema significa dire che l’articolazione che viene fuori non è mai semplicemente ciò che era nella testa di chi l’ha proposta, ma il risultato di un processo che, pur essendo iniziato da quella proposta, può prendere direzioni molto diverse. Idealmente, nessun gruppo o organizzazione dovrebbe essere in grado di imporre la propria idea di articolazione al resto, perché la cosa più importante per un’ecologia è che la capacità di proporre iniziative non sia soppressa (come vorrebbe una concezione ingenua dell’auto-organizzazione), né che sia fissata in un unico punto (come vorrebbe un ingenuo verticalismo), ma che sia libera di circolare. In definitiva, in una situazione di relativa libertà di circolazione di questa funzione, un’iniziativa vale tanto quanto la sua capacità di conquistare le persone, di farle aderire. Questo significa che, idealmente, chi vuole proporre un’articolazione deve avere un’intelligenza strategica molto sviluppata, ma anche un’ottima capacità di ascolto. Condurre e ascoltare, in queste circostanze, sono intimamente connessi.

Un’ultima domanda. Qualsiasi discussione sull’organizzazione deve naturalmente essere sensibile alle questioni di tempo e spazio. Per quanto riguarda il tempo, apri Neither Vertical Nor Horizontal menzionando il tuo coinvolgimento nel ciclo di lotte di massa che è iniziato nel 2011, e ha poi avuto un momento culminante in Brasile nel 2013, in particolare. È stato appunto un momento di lotta e di mobilitazione di massa. Ci siamo trovati di fronte, abbiamo partecipato a molti movimenti di massa, e sappiamo che questi movimenti di massa non sono mai del tutto spontanei, sono sempre in un certo senso organizzati: ma questa è una forma di organizzazione o un insieme di forme di organizzazione piuttosto diverse da quelle richieste quando non si è in presenza di movimenti di massa e si affronta in un certo senso la questione della continuità dell’iniziativa politica. E si scopre che in quel momento la politica, la politica radicale, persino rivoluzionaria, è un affare per le minoranze. Quindi vorremmo sentire i tuoi pensieri su questo tipo di disgiunzioni e differenze temporali.

E poi riguardo allo spazio. Stiamo discutendo e sperimentando da 25, 30 anni la difficile ma necessaria relazione tra il locale e il globale. Il locale è troppo concreto, il globale è troppo astratto. Abbiamo appunto il problema dello spazio, del radicamento territoriale delle pratiche politiche, delle lotte politiche e sociali... ma abbiamo anche il problema di confrontarci, diciamo, con i processi globali che investono ogni territorio. Ritorna qui, in forme per certi aspetti diverse, il problema che un tempo era il problema dell’internazionalismo. Come si affronta questa questione dal punto di vista delle tue riflessioni sull’organizzazione?

Inizierò con la seconda domanda. Una delle cose che mi è piaciuta di più nella recezione del libro è stato quando un attivista per il clima ha detto di averlo apprezzato perché, anche se non era un libro sul clima, continuava a tornare su di esso aiutandolo a cambiare il suo punto di vista. Il cambiamento climatico dovrebbe davvero funzionare come una prova di forza per tutte le nostre idee politiche nell’attualità. Se concordiamo sul fatto che è il problema più grande con cui abbiamo a che fare oggi, abbiamo bisogno di una teoria che sia almeno compatibile con l’altezza di quel problema.

E perché il cambiamento climatico funziona in quel senso? Perché c’è una parte della sua dimensione globale che non si può pensare meramente come un aggregato di processi locali. Il clima è globale, gli effetti del suo cambiamento sono globali – per cui non si può pensare a “zone liberate” che possano aspettare finché le cose cambiano altrove –, e le cause rimandano in ultima analisi a una certa disposizione del sistema globale a cui è legata la nostra stessa riproduzione. Talvolta attraverso la violenza, ma più regolarmente attraverso la coercizione economica e delle strutture di incentivi che stabiliscono i percorsi di minor resistenza – ad esempio, per un paese povero produrre prodotti agricoli per l’esportazione o per una lavoratrice precaria consumare cibo trasformato a basso costo –, questa disposizione stabilisce un sistema di interdipendenze che è enormemente resistente proprio nella misura in cui la riproduzione della gente dipende da esso. Quindi non si tratta semplicemente di cambiare i modi in cui le persone producono e consumano a livello locale, ma anche questo sistema – tra l’altro, perché questo sistema limita fortemente la libertà che le persone hanno a livello locale di cambiare i modi in cui producono e consumano. Perciò è necessario pensare a forme di azione simultanee su diverse scale, dalla più piccola alla regionale, nazionale, sopranazionale etc. Perché, finalmente, se in un certo senso tutta l’azione è sempre locale – agiamo sempre su una parte, per quanto grande possa essere, dei processi su cui interveniamo –, spesso dimentichiamo che “locale” è un termine che varia secondo la scala a cui ci riferiamo come “globale”: la Terra è locale per rapporto al Sistema Solare, che a sua volta è locale in rapporto alla Via Lattea. Cambia la scala su cui dobbiamo intervenire, cambiano le dimensioni degli interventi da immaginare.

È questa proporzionalità tra l’azione politica e quello che s’intende trasformare che è stata oscurata nei primi tentativi di incorporare discorsi scientifici sull’auto-organizzazione nel pensiero politico. Nella concezione della rivoluzione che è stata dominante nella prima parte del secolo passato, il partito di massa veniva immaginato come un apparato che avrebbe dovuto emulare la portata e la struttura di quello contro cui combatteva, lo Stato, e alla fine diventare comprensivo come quest’ultimo. Questo ha portato a vari disastri pratici e politici che hanno generato un vero trauma dell’azione collettiva organizzata su scala ampia, una paura delle grandi dimensioni. È in questo contesto che discorsi come la teoria della complessità vengono utilizzati negli anni Novanta e Duemila come modo di razionalizzare la scomparsa e il rifiuto della politica di massa: guarda cosa ci dicono queste teorie, in un sistema complesso cause molto piccole possono avere effetti molto grandi, la proverbiale farfalla in Brasile che provoca un uragano in Texas; quindi, è possibile cambiare il mondo esclusivamente con piccole azioni locali. Ed è vero che queste teorie parlano di una sproporzione tra cause ed effetti, che i sistemi complessi in prossimità di un punto critico possono arrivare a cambiamenti molto più grandi delle loro cause originarie; ma dicono anche che queste cause devono avere una certa dimensione minima, che non è qualsiasi causa piccolissima che può produrre qualsiasi effetto. In realtà, la risposta letterale al titolo del famoso articolo di Edward Lorenz che chiedeva se le farfalle in Brasile potessero causare uragani in Texas è: no, anche se i sistemi caotici come il clima sono effettivamente molto sensibili a cambiamenti relativamente piccoli delle sue condizioni iniziali. La lezione che possono darci questi discorsi è, dunque, tutt’altra: che anche se non abbiamo bisogno di una forza che abbia le stesse dimensioni di ciò che vogliamo cambiare, abbiamo bisogno di una forza che sia grande abbastanza, che possa produrre fluttuazioni sufficientemente grandi da spingere il sistema in cui interviene verso un nuovo stato. E per questo, ancora una volta, dobbiamo essere in grado di agire su scale diverse. Quindi, abbiamo ancora bisogno dell’azione di massa e dell’organizzazione su ampia scala, così come della capacità di identificare effettivamente i punti critici del sistema e identificare i tipi di intervento che hanno maggiori probabilità di avere un impatto sostanziale.

Ma ovviamente ora, tornando alla prima domanda, non siamo in un momento di azione di massa dispiegata. Il problema con la riformulazione della complessità in relazione alla politica nel modo che ho appena proposto è che evidenzia solo quanto siamo carenti se non abbiamo una politica di massa, se non abbiamo una capacità di massa di agire nel mondo. Quando manca una politica di massa, ciò che si può fare è provare a pensare e costruire i contorni di quella che potrebbe essere una futura politica di massa. Lenin usava la metafora dell’impalcatura per parlare di organizzazione, e credo che possa essere applicata anche in questo caso. Da un lato dobbiamo affinare il nostro pensiero strategico per identificare questioni ampiamente condivise – colli di bottiglia nella riproduzione sociale, situazioni che acquisiscono una particolare importanza simbolica – che possono funzionare come punti di pressione strutturale, e allora anche le forme di azione che potrebbero esercitare tale pressione, i modi in cui si potrebbe generare sostegno e mobilitazione per esse, le forme di organizzazione che saranno necessarie per agire su di esse. Soprattutto, dobbiamo domandarci quali sono le iniziative possibili all’interno delle condizioni esistenti che ci possono portare più lontano. Dall’altro lato, dobbiamo cominciare a lavorarci. Tra una ondata di politica di massa e l’altra, sono le minoranze che sono rimaste al loro posto dai precedenti cicli di lotte che devono fare questo lavoro. E anche se non si può mai indovinare con certezza quando e dove avverrà la prossima ondata, dobbiamo cercare di essere pronti il più possibile e aver elaborato idee da portare sul tavolo riguardo a quale direzione andare e quali target strategici, quali forme di organizzazione, quali “promesse plausibili”, quali forme di organizzazione proporre – sufficientemente aperte per adattarsi alle nuove situazioni ma sufficientemente coerenti per mantenere la loro capacità di operare strategicamente.

Copertina del primo numero di Teiko

© El Estadista

Note

  1. La conversazione assume come punto di riferimento il libro di Rodrigo Nunes, Neither Vertical Nor Horizontal, London/New York, Verso, 2021, di prossima pubblicazione in italiano per i tipi di Alegre

  2. Bolsonarismo y extrema derecha global, Buenos Aires, Tinta Limón, 2024

  3. Riferimento a A. Toscano, Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere, Bologna, DeriveApprodi, 2024

  4. I. Stengers, Nel tempo delle catastrofi, Torino, Rosemberg & Sellier, 2021